XXXIX [V 33, G 61]
A Scipione Gonzaga
[1] Dalla lettera di messer Luca ho inteso l’opinioni del signor Barga, le quali mi piacciono oltramodo e vorrei che ciascun altro se ne sodisfacesse; ché certo mi sarebbe un grande alleviamento di fatica il non aver a mutar alcune delle cose ch’egli approva. [2] Io, in quanto a me, fo tanta stima della sua auttorità che non cercarei più oltre; ma gli altri non so già se s’acquetaranno all’auttorità. E però giudicarei più sicuro consiglio, quel che si potrà, con poca fatica schivar ogni occasione di reprensione e nel rimanente armarsi almeno di buona ragione.
[3] Or non sia grave a Vostra Signoria ch’io cominci a discorrere minutamente sovra molti particolari e mostri qual sia la mia opinione o ’l mio dubbio: potrà ella poi conferire ogni cosa con lui e procurar d’intendere non solo il quia di quel che dice, ma anco il propter quid.
[4] Cominciaremo a parlar del verisimile; la qual materia è tale che, non solo da’ maestri di poesia, ma ancor da gli altri è spesso considerata. Et a me pare che con più fastidioso gusto ricerchino molti il verisimile ne’ poemi moderni, di quel che facciano in Virgilio et in Omero, ne’ quali si leggono infinite cose molto men verisimili di quelle che come poco verisimili son dannate nel mio poema. [5] È verisimile nell’Odissea ch’Ulisse dopo il naufragio nuoti nove giorni senza mangiare, senza bere e senza ch’appaia ch’egli sia aiutato da alcun dio? Or chi comportarebbe questo in alcun poema moderno? [6] Pare strano spettacolo al signor Silvio ch’Erminia s’armi, che monti a cavallo, ch’esca della città: ma non gli parerà forse strano spettacolo che Scilla, per tradire il padre, esca della città e vada al campo de’ nemici; né strano gli dee parere che Clelia con tant’altre vergini date per ostaggio da’ romani a’ toscani, ingannino le guardie, si partano dall’oste de’ toscani e passino di notte il Tevere. «Dux agminis virginum, frustrata custodes, inter tela hostium Tiberim tranavit, sospitesque omnes Romam ad propinquos restituit». Queste son le parole di Livio, se ben mi ricordo. [7] Maggior miracolo è che si trovino cinquanta ardite, che trovarne una; maggiore impresa passare il Tevere, ch’armarsi e montare a cavallo; manco efficace è la cagione che spinse le vergini, di quella che mosse Erminia: poiché quella fu l’emulazion della viril virtù, questa l’amore. E pure il maggior miracolo, sì come è vero, così par verisimile; il minore, se pur miracolo si dee chiamare, non è accettato come verisimile. [8] Dice Aristotele nella Poetica che non è inverisimile che molte cose avvengano fuor del verisimile, e questi tali verisimili accetta egli: e noi a fatto a fatto gli escluderemo? Ma perché, potendo schivare ogni dubbio, non si deve fare? [9] Sarà forse bene, dopo quei versi:
Né già d’andar ne le nimiche schierePer mille strani rischi avria paura;Ch’andria, d’Amore scorta, in fra le fereDe l’arenosa Libia ancor sicura
soggiunger ch’Erminia, come colei ch’era stata assediata e presa et avea corso molti pericoli, avea deposta in gran parte quella timidità ch’è propia delle donne. Ma soggiungendo questo, bisognarà rimovere quel che poi si dice del suo soverchio timore.
[10] Segue il secondo dubbio pur sovra Erminia: se pensa come possa uscire, perché non pensa come possa entrare nel campo de’ cristiani? Risponde il signor Barga: cieca d’amore, inconsideratamente si lascia trasportare. A me piace la risposta; ma pur, per maggior sicurezza, non mi spiacerebbe chi potesse accommodare la cosa del servo in modo che bene stesse. Ma vi trovo molte difficoltà in tutti i modi. [11] Se ’l servo va il giorno inanzi, come più piace al signor Sperone, e se Tancredi consente ch’Erminia possa venire a trovarlo, perché Tancredi non mette ordine tale ch’ella possa venire a trovarlo sicuramente? A questo si potrebbe rispondere ch’Erminia non significa a Tancredi di volerlo andare a trovare con l’arme di Clorinda, e però è presa in cambio. Ma perché non si dà ella a conoscere? O almeno: perché il suo servo non dice alcuna cosa? Ma se ’l servo non va se non quella notte medesma e di poco inanzi a lei, essendo presa da i due fratelli, perché non dice: Menatemi a Tancredi, ch’io ho da rivelare a lui cose d’importanza etc.? Questi dubbi mi danno gran fastidio e volentieri vorrei che si rimovessero. [12] Sarebbe forse bene ch’Erminia, avendo l’ordine di partire una notte, per alcun impedimento non potesse uscir quella notte, et indugiasse sin all’altra o per impazienza anticipasse di molte ore il tempo; e così non fosse intromessa da coloro a i quali Tancredi avea commesso etc., trovandosi altri alla guardia; né Tancredi, sentendo parlare di Clorinda, crederebbe ch’ella fosse Erminia, non essendole stato significato ch’ella dovesse venire sotto l’armi di Clorinda, né a quell’ora. Aspetto con grandissimo desiderio sovra questo minuta risposta.
[13] Nel medesmo canto vorrei mutar due altre cose: non vorrei, prima, ch’Argante combattesse quella querela, che i cristiani per ingordigia di dominare etc.; perché essend’egli prima interamente vincitore e poi non a fatto vinto, non mi pare che con tutto l’onore de’ cristiani si combatta tal querela; ma che semplicemente sfidasse i cristiani per persona di valore, come Ettore sfida i greci appresso Omero. [14] Mi parrebbe, poi, che fosse meglio che Goffredo commettesse a Tancredi che prendesse la battaglia et a Clotario che l’accompagnasse: ma essendo Tancredi fermatosi o a parlar con Clorinda o a mirarla, Argante impaziente lo sgridasse; et egli o non udendo o per altra cagione andando più lento, Clotario cominciasse la battaglia. [15] Non parve né prima al signor duca, né poi al signor Sperone ch’Argante dovesse combatter con tanti, o che Goffredo dovesse commetter l’impresa se non a i valorosissimi: et in questa cosa del verisimile e del decoro io giudico che ’l poeta debba procurar di sodisfare a tutti.
[16] Nel canto duodecimo Clorinda non uscirà sola, ma uscirà sol con Argante: e si diran cose, per le quali apparirà e l’utilità e la difficultà dell’impresa. Sia detto sin qui del verisimile: ora passiamo a quello che non può esser giudicato se non dagli intendentissimi dell’arte.
[17] Io ho già condennato con irrevocabil sentenza alla morte l’episodio di Sofronia, e perch’in vero era troppo lirico e perch’al signor Barga et a gli altri pareva poco connesso e troppo presto; al giudicio unito de’ quali non ho voluto contrafare e molto più per dare manco occasione a i frati che sia possibile. Ora io vorrei riempire il luogo vuoto d’alcuna cosa più conveniente e volentieri vorrei vedere il giudizio de’ revisori così concorde nell’introduttione del nuovo episodio, com’è stato conforme nell’esclusione dell’altro.
[18] Mi scrive il signore Scalabrino che ’l signor Barga non approva né il racconto della presa d’Antiochia, né la pittura del tempio, come non necessari episodi e come quelli ne’ quali si verifica quel detto d’Aristotele: quia sic poetae placuit. Or io qui desiderarei d’intender s’egli crede che tutti gli episodii sian necessarii; perché io, a confessar la mia ignoranza, ho sempre avuto contraria opinione, la quale era stata generata in me dalle parole d’Aristotele. [19] Parlando Aristotele del verisimile e del necessario, secondo che si ricercano nella favola o negli episodii, ne parla sempre disgiuntivamente, non mai copulativamente: «Haec vero in ipso rerum contextu ita adstruenda sunt, ut ex his, quae prius acta fuerint, necessario sequi, aut certe verisimiliter agi videantur». Et altrove: «Oportet autem et in moribus, quemadmodum in rerum constitutione, semper quaerere vel necessarium vel verisimile». [20] Molti altri luoghi sono ancora, ne’ quali dice o necessariamente o verisimilmente, parlando non solo de gli episodii ma, quel ch’è più, della favola. ché s’egli avesse voluto in tutti gli episodii necessaria connessione, avrebbe detto: siano e verisimili e necessarii; ma dicendo o necessarii o verisimili, mostra contentarsi della verisimilitudine.
[21] Oltra l’auttorità d’Aristotele, m’induceva in questa opinione ancora l’auttorità de’ poeti. Nissuna necessaria connessione hanno con gli errori d’Ulisse gli errori di Menelao, i quali nel principio dell’Odissea son narrati da Menelao istesso: nissuna la morte d’Agamennone e le fortune di tutti gli altri greci, che prima sono raccontate da Nestore a Telemaco: nissun congiungimento necessario ha co’ fatti d’Enea la favola di Caco o la morte e la sepoltura e l’essequie di Misseno. E mi par di ricordarmi che Servio dica in quel luogo che si parli di questa morte avendosi riguardo all’istoria: quasi egli creda ch’alcune cose non necessarie si possano verisimilmente dire in grazia dell’istoria.
[22] Quelle parole poi d’Aristotele, «Haec igitur ipse dicit, quae vult poeta, sed non fabula», non intendo bene a che fine s’alleghino in questo proposito. Quando Aristotele parla delle molte maniere d’agnizione, mette fra le agnizioni meno artificiose, e non però nell’ultimo luogo, quella agnizione la qual proceda da parole dette, non perché il contesto della favola necessariamente le ricerchi, ma perché il poeta vuol che si dicano. Ora non veggio come questo detto d’Aristotele si possa, stendendo, applicare a tutti gli episodii; né so che Aristotele dica altrove queste o somiglianti parole. [23] A me pare che molto più strette leggi sian quelle dell’agnizione, che non son le leggi de gli episodii; peroché l’agnizione è non solo nella favola, ma è parte principal d’essa; e nell’agnizion principalmente si manifesta l’artificio del poeta, sì che vi si ricerca un non so che d’esatto e d’esquisito: e ’l voler ricercar la medesma esquisitezza in tutti gli episodii è forse un voler più oltra che non si conviene alla lor natura e che non si può dar loro. [24] Non veggio poi pittura alcuna in alcun poeta, alla qual non si possa attribuir questo difetto: «quia poeta vult». Qual necessità è che nel tempio di Didone sian dipinte le guerre troiane? Perché non vi potevano esser dipinte le fenici? Perché nello scudo d’Enea, perché nello scudo d’Achille sono poste più tosto quelle ch’altre pitture? Nissuna necessità si vede in ciò, ma una certa verisimilitudine, ch’a me non par meno arte di quel che paia la necessità a i suoi luoghi.
[25] Mi scrive anco messer Luca che, avendosi a far racconto, il signor Barga loda che si faccia più tosto verso il mezzo del poema che nel principio. Signore, quanto io stimi l’auttorità e ’l giudicio del signor Barga è assai noto per gli effetti, avendo io in tante parti del mio poema seguiti i suoi consigli. [26] Dirò dunque alcune cose non per contradire alla sua opinione, ma solo per darli occasione ch’egli m’insegni quel che non so, e che tanto m’importa di sapere. E può ben credere Vostra Signoria ch’affetto non mi move a parlare (amore, intendo, di novo parto), perché di questa narrazione nulla n’ho fatto, né anco determinato: vedendo che, non solo da me, ma da tutti è molto desiderata, vorrei pur introdurla e vorrei saper dove e come. [27] Del come, non son risoluto; del dove, a me pareva nel principio, e per queste ragioni. Dall’arte delle tragedie si raccoglie in gran parte l’arte dell’epopeia; peroché, come dice Aristotele, tra le parti quantitative della tragedia, quella che si chiama prologo (nome ch’equivocamente s’attribuisce a quella diceria ch’è fuor della tragedia o della comedia) è la prima in ordine et è inanzi all’entrata del coro. Et in questa parte, secondo l’uso de’ migliori tragici, si narra tutto quello che si ha da narrare delle cose passate, la notizia delle quali è necessaria accioché s’intendano quelle c’hanno a seguir nella favola: e chi ciò non facesse nelle prime scene, il lettore andarebbe al buio. [28] Con questa parte della tragedia detta prologo deve (a mio giudizio) conformarsi, se non nel nome almeno nell’offizio e negli effetti, la parte dell’epopeia ch’è prima in ordine; et in essa devono farsi tutte le narrazioni delle cose passate (se però alcuna particolar ragione no ’l vieta), e dirsi tutto ciò che parve per introduttion della favola e per maggior chiarezza delle cose c’hanno a seguitare.
[29] Ma che vo io dietro all’uso de’ tragici, se l’uso degli epici ancora è tale? Virgilio non introduce egli il racconto d’Enea nel secondo libro? Mi si potrebbe replicare che quel racconto è parte della favola, non episodio. Voglio io conceder quel che niega il Castelvetro, che ’l terzo libro, nel qual son contenuti molti de gli errori d’Enea, sia parte della favola; ma non veggio come l’arte di Sinone descritta con tanti ornamenti e la presa di Troia sia[n] parte della favola. [30] Questo so bene, o mi pare di saperlo, che se Virgilio avesse trasportato il racconto della presa di Troia fra le battaglie del settimo o dell’ottavo avrebbe fatto cosa poco grata al lettore, il quale allora desidera di sapere com’Enea vinca Turno, non come sia stato cacciato di Troia. E certo sì fatta notizia delle cose passate in quel luogo mi parrebbe intempestiva; sì come intempestivo mi parrebbe, quando l’uomo desidera d’intendere novelle di Rinaldo o d’Armida o come s’espugna Gierusalemme, il narrarli come sia stata presa Antiochia.
[31] Omero parimente nel principio del terzo libro, il quale, chi numera i versi, non è più remoto dal principio di quel che sia il secondo dell’Eneide; Omero, dico, nel terzo dell’Odissea introduce Nestore che narra il ritorno et i varii successi de’ principi greci; e poi Menelao nel quarto narra i suoi medesmi errori; et ancora non si sono dette d’Ulisse venti parole: s’è detto solo ch’egli è nell’isola di Calipso, desideroso etc. [32] Finalmente Omero nel fine del quinto libro comincia a parlare d’Ulisse; e subito ch’egli l’ha condotto all’isola de’ Feaci, l’introduce a raccontare i suoi errori. [33] Mi sovviene d’aver già udito dire dal signor Sperone che quest’arte d’Omero è maravigliosa e che gli piace più l’Odissea dell’Iliade: però da lui si potranno in questo particolare intendere molte ragioni ch’io non saprei dire.
[34] Ma tornando al nostro proposito: quand’io vidi condannato l’episodio di Sofronia, perch’egli era poco connesso e troppo presto, non cedetti così facilmente all’altrui ragioni, parendomi di vederne in Omero alcuni non men tardi, ma certo manco a prima vista connessi. Ma considerai poi meglio e mi parve di conoscere che quelli d’Omero, essendo di materia non aliena, apportando molta notizia delle cose passate, erano con grande artificio introdotti; ma nell’episodio mio di Sofronia alcuna di queste condizioni non riconobbi: sì che più facilmente mi son lasciato indurre a mutarlo.
[35] Ora in questo racconto d’Antiochia mi par di conoscere tutte le condizioni che sono negli episodii omerici: desidero dunque sommamente d’intendere per qual ragione il signor Barga, al qual credo anco senza ragione, abbia contraria opinione. E certo, s’io non vedessi il signore Sperone e ’l signor Flaminio e ’l signor Silvio desiderare unitamente questo episodio, io, senza cercare altro, seguirei il consiglio del signor Barga; ma in tanta diversità di pareri non mi posso contentare dell’auttorità.
[36] Prego dunque Vostra Signoria illustrissima con ogni affetto a procurare ch’io esca di questa ignoranza e di questa ambiguità; e quando sia pur concluso che si faccia questo racconto, non so da chi meglio possa esser fatto che da Erminia; perché narrando Goffredo o alcun de’ vincitori, la narrazione non potrebbe riuscire patetica, e la presa d’Antiochia, narrata senza l’affetto doloroso, avrebbe dell’insipido. [37] Qui metto in considerazione che Ulisse et Enea non narrano le vittorie loro, ma le sciagure, e più tosto quel c’han patito che quel c’han fatto: le vittorie ricercano d’esser magnificate; né dalla bocca de’ vincitori possono magnificarsi. Questo episodio per altro mi servirebbe assai assai alla introduttione delle persone d’Erminia e di Clorinda: pur in tutto e per tutto mi rimetto al giudizio di cotesti signori e non ne farò altro sinché non abbia a pieno inteso il parer loro.
[38] Quella opinione del Castelvetro, che non si debba ricever nel poema persona principale favolosa, pare anco a me falsissima; pur è tenuta da molti, et in particolare da molti gioveni dotti di Toscana. E con questo facendo fine, a Vostra Signoria illustrissima bacio le mani.