XII [V 11, G 32]
A Luca Scalabrino
[1] Io credo che siate in còlera meco, e n’avete cagione; pure vi prego a lasciarla.
[2] Lessi alle Casette l’ultimo canto a Sua Altezza, per quanto mostrò, con infinita sua sodisfattione; e con la prima occasione, la quale non potrà tardare oltre quindici o venti giorni, cominciarò a rileggerlo tutto ordinatamente da principio.
[3] Ritornando a Ferrara ho ritrovata una vostra lettera et in essa veduta l’opposizione al nono. Io aspettava in questo luogo a punto del nono una opposizione, ma non questa che mi è stata fatta; anzi, molto diversa. [4] L’opposizione mi parea che dovesse esser tale: che indarno i cavalieri amanti d’Armida e Tancredi sono stati allontanati dal campo, se senza essi resta vincitore il campo cristiano, e se ’l lor ritorno opera così poco alla vittoria. [5] Dove parrebbe ragionevole che la vittoria in gran parte devesse dependere dalla tornata loro: così per mostrare che di non poca conseguenza erano state l’arti d’Armida e gli altri episodi precedenti, come per attribuire tanto più a Rinaldo ch’è auttore, per così dire, della loro liberazione e del lor ritorno: sì che questa vittoria ancora venisse, in un certo modo, a riconoscersi da lui. [6] Questi dubbi aveva io intorno a quella parte, i quali mi pareano di tanta importanza, ch’andava deliberando di far che l’aiuto giungesse un poco prima, quando la battaglia era incerta: il che si potrà fare con la sola mutazione di tre o quattro stanze, con pochissima difficoltà.
[7] Il dubbio vostro non mi muove punto. Sono, tra’ saracini, Solimano, Argante, Clorinda valorosissimi; tra’ cristiani, Goffredo, che si può e si deve opporre e preporre (tale è la fama, e tale sempre il dipingo) a ciascuno di loro: gli altri due non avranno incontro di due altri soli che lor resista[no], sendo lontani Tancredi e gli altri. [8] E quel che s’è detto prima da me della bravura di Argante e di Clorinda, s’è detto sin a questo termine: cioè che ciascun altro del campo cristiano (trattine i tre primi, Goffredo, Rinaldo, Tancredi) sia considerato da per sé inferiore a ciascun d’essi. [9] Ma sono però, come appare nel settimo, rimasi nel campo cristiano Balduino, i due Guidi, Ruggiero, Gerniero, Pirro, il conte de’ Carnuti, Normanno, Eberardo, Stefano, Rosmondo, Odoardo, Gildippe, Raimondo; de’ quali ciascuno s’offerì di combatter con Argante in pugna singulare. Questi tutti insieme non è dubbio che non siano giudicati atti a resistere a Clorinda et ad Argante, andando la cosa non da due a due, ma da quatordici a due. [10] Omero fa che Enea, molto superiore a ciascun greco (trattine Achille, Diomede, gli Aiaci et Agamennone), avendo certa la vittoria sovra Menelao, come Antiloco si congiunge a Menelao, lascia subito la battaglia, e si ritira: e pure Antiloco non è né de’ primi né de’ secondi. [11] E ch’io non discordi da me stesso, chiaramente si vede nel settimo, dove non entrando Goffredo in battaglia, Argante e Clorinda cedono il campo a Balduino et alla sua schiera.
[12] Se dunque Goffredo può contraporsi a Solimano e Raimondo, seguitato da sei o otto di que’ principali rimasi, può esser giusto contrapeso a Clorinda et ad Argante (che è verisimile, perché seguito da gli altri), essendo sopragiunto il giorno, scacciati i demoni dall’Angiolo, combattendo da una parte un essercito d’Europa ferocissimo, veterano, bene armato, invecchiato nelle vittorie; dall’altra, una moltitudine d’arabi tumultuari, disarmati e di soriani, non vi essendo altro di robusto che una squadra di turchi; certo è ragionevole che non solo vincano i cristiani, ma molto presto. [13] E mi è sempre paruto che ’l far la vittoria doppo il giorno tarda e faticosa, non avesse del verisimile e fosse con poco decoro del campo cristiano, ch’io formo valorosissimo e tale è per fama. [14] Quanta stima si debba fare della fama, la quale può derivare ancora da molte istorie concordi, rispondendo ad alcun’altre opposizioni il dirò con Orazio et Aristotele: sì che quest’altro dubbio fu cagione ch’io non volessi attribuire totalmente la vittoria all’aiuto dato da Tancredi e da gli altri che seco vennero, parendomi di fare troppo torto al campo cristiano.
[15] Considerisi che la lontananza d’Achille sola non basta a far vittoriosi i troiani, ch’in ogni modo i greci avrebbono vinto facilissimamente. [16] Ma Omero, volendo, da una parte, non dire cosa indegna dell’opinione che s’avea di quel campo de’ greci, dall’altra, fare che l’oste troiana metta in fuga la greca et assalti il muro, riparo suo difficilmente da lei difeso, ricorre a Giove, fingendo che non la virtù d’Ettore, per grande che sia, ma ’l favor di Giove dia la vittoria a’ troiani. [17] Io non posso ricorrere a Dio in questo caso e far che ’l suo favor dia la vittoria a’ saracini; ché sarebbe, se non impietà, almeno stranissima et insopportabile poesia: né altra via mi è sovvenuta, con la quale si potesse dare la vittoria a’ saracini. In somma non ho giudicato bene, per molte altre cagioni che scriverò in altro proposito, far perdenti i cristiani in battaglia campale.
[18] Dall’altra parte era necessario indurli in molta necessità, volendo fingere necessario il ritorno di Rinaldo. [19] Patiran dunque grandissimo danno nell’assalir della città; saran loro spezzate, bruciate le machine, impedita la via del farne dell’altre; e saranno in somma in stato che, se non temeranno d’esser rotti in campo, dubiteranno almeno d’esser constretti partirsi vergognosamente dall’impresa; e sarà chi tentarà persuaderlo: e colui ch’è attore assai perde quando non vince. [20] Così mi governo ne i canti seguenti per far necessario il ritorno di Rinaldo, come è necessario alla vittoria de’ greci ch’Achille vesta l’armi. Se bene o male, altri sel veda. Questo so bene, ch’io non sono più in tempo di mutare, né muterò.
[21] Ma in quanto al nono canto, se, considerate tutte le ragioni dall’una e dall’altra parte, giudicheranno i signori revisori che si debba attribuire la vittoria all’arrivo de’ cavalieri sopravegnenti, che non sono già tutti aventurieri, io il farò: et inchino all’opinione che si debba fare, non ostante gli altri rispetti: e sarà facile il farlo; anzi di già l’aveva comincio e poi mi ristetti.
[22] Ho considerato, dopo avere scritto le precedenti cose, su ’l progresso dell’attioni fatte da Argante; e trovo che due volte inanzi al nono (una nel terzo, l’altra nel settimo) si trova in battaglia; e sempre al fine è costretto, se bene in maniera onoratissima, di cedere il campo a’ cristiani: e la penultima volta non v’era né Rinaldo né Tancredi né alcuno che mancasse nell’ultima; sì che non so vedere perché, facendo questa terza volta quel c’ha fatto nell’altre due prime, si mostri dissimile a se stesso.
[23] Io non ricevo a fatto nel mio poema quell’eccesso di bravura che ricevono i romanzi: cioè che alcuno sia tanto superiore a tutti gli altri, che possa sostener solo un campo; e se pure il ricevo, è solo nella persona di Rinaldo; ché se da lui a gli altri amici e nemici (trattone Goffredo, al qual, com’a capitano, non son lecite alcune cose) non fosse molta differenza, scioccamente il poeta gli attribuirebbe tanto. [24] Vedrassi al suo luogo che Rinaldo scorre la battaglia a sua voglia: non avviene il medesmo de gli altri. [25] Voi vi devete ricordare con quanta facilità uccide Solimano e gli altri principali del campo egittio: dove all’incontra, fra Tancredi et Argante la battaglia è molto dubbiosa; e l’uno riman morto, l’altro tramortito. [26] E ’ntorno a questo proposito ho considerato che questo sommo eccesso di bravura è da Omero concesso ad Achille solo, non ad Aiace o a Ettore. E questa gran differenza ch’è da Achille a gli altri è introdotta con maggior arte, che la poca ch’è fra Ruggiero e Rodomonte, se Ruggiero è così necessario a gli africani.
[27] Onde dunque si raccoglie che questo eccesso di valore in Argante sia tanto grande, che possa agguagliare un popolo imbelle ad un fortissimo? Da alcuna sua precedente attione? Certo no. Forse da parole dette da me, descrivendo il suo valore? Potrebbe essere che ve ne fosse alcuna (ché non mi ricordo tutti i luoghi) che dinotasse ciò. [28] Ma questo non monta nulla, perché ’l poeta non è obligato a corrispondere alle comparazioni et all’iperbole poetice co’ fatti; perché, se ben si dice ch’uno è più impetuoso d’un fulmine o d’un vento, non però è necessario che faccia a gran pezzo ciò che faria un fulmine o un vento. [29] Dice Virgilio che Camilla poteva correre sovra l’acqua senza bagnar le piante: però se fosse occorso il caso di passare un fiume, l’avrebbe fatta notar, non correre o caminare su l’onde. [30] Omero, parlando della velocità d’Achille, il prepone a i venti: nondimeno, seguendo Ettore (della velocità del quale cosa alcuna grande non si narra), gira tre volte Troia intorno intorno, prima che ’l possa giungere; né già Ettore è aiutato da Apollo, se non verso l’ultimo.
[31] Or riepilogando: il poeta, fingendo un cavaliero, deve servar in lui un perpetuo tenor d’attioni e corrispondere a’ fatti co’ fatti; ma non è necessario che co’ fatti corrisponda alle parole dette per aggrandimento poetico. Et a me pare che Argante nelle sue operazioni sia sempre il medesimo, né mi pare d’esser obligato a più.
[32] Leggete al Signor questa lettera, mandando inanzi il protesto che non intendo che la confusa et inelegante spiegatura mi pregiudichi: egli poi, se le parrà che le mie ragioni il vagliano, potrà conferirle co’ revisori.
[33] Non sarebbe male che le lettere che ho scritte o scriverò in questo proposito si serbassero: ma questo dico a voi in secreto, e voi fate quel che vi pare. Vi sono alcune considerazioni che Dio sa se me le ricorderò mai più!
[34] In Venezia non ho potuto trovar tavola alcuna di Gierusalemme, venale; né per altra via: sì che mi maraviglio ch’in Roma ve ne siano delle stanpate. Quelle di tutta Palestina non fanno a proposito; perch’io vorrei il sito particolare della città, ch’in quelle non si conosce.
[35] Questa sera, ch’è del dì del Corpo di Cristo, si va a cena a Belriguardo: dicesi che torneremo dimane, ma non è certo. Se torneremo, manderò ogni modo l’argomento della favola. E con questo vi bacio le mani.
Di Ferrara, il 2 di giugno.
[36] Mostrate questa scrittura al Signor nostro illustrissimo, pregandolo che non parli con uomo del mondo del contenuto in essa, né pur l’accenni; et io non ne ho voluto toccare cosa alcuna nella lettera che gli scrivo, accioché, se gli parrà, possa mostrare la lettera a chi vuole.
[37] La differenza fra [Sperone Speroni] e me, assai disputabile, e forse sola disputabile fra coloro ch’intendono l’arte a dentro, è questa. [38] Vuole [lo Speroni] che l’attione del poema sia non solo una ma d’uno, e d’uno numero , non specie ; benché la seconda condizione non si trovi mai né espressa né accennata da Aristotele; e si fonda sull’essempio de’ poemi omerici e sovra alcune sue ragioni. [39] Voglio io che l’attione debba necessariamente esser una e che possa esser d’uno numero, ma che possa esser ancora, nel poema eroico, non in altri poemi, una di molti, pur che que’ molti convengano insieme sotto qualche unità; [40] e che questa tale unità de’ molti, come che assolutamente sia meno perfetta, è meno perfetta nella tragedia, nell’epopeia nondimeno (tale è la sua natura) sia più perfetta: e ciò si prova con ragione e con auttorità d’Aristotele.
[41] Il Barga, per quanto mi scrisse il signor Scipione, mostrò d’esser della mia opinione; ora, non se n’accorgendo, non solo passa, ma precipita inevitabilmente nell’opinione del [lo Speroni]; perch’ogni volta che faccia ch’e’ cristiani senza Rinaldo non possano in battaglia (il che però non fa Omero de’ greci senza molte circonstanze) resistere a i saracini, l’attione inevitabilmente, necessariamente è una d’uno, non più una di molti in uno; [42] peroché tutti gli altri non solo sono inetti senza il principale a conseguir il fine principale, cioè la vittoria, ma sono anco inetti a temporeggiare et a tutte l’altre cose; di maniera che intravengono nel poema non più come partecipi della vittoria e dell’attione principale, ma come difesi, come liberati dal principale et in somma come coloro che della loro vergogna porgono materia all’altrui gloria.
[43] Avvertasi che quel […] sa più che molti non credano; e che, concessogli questo punto, che pare a gli uomini che non sia in pregiudizio né d’Aristotele né de’ poeti antichi, passa a cose maggiori. E come avviene ch’una eresia porta seco un’altra in conseguenza, conclude con questo mezzo un’altra conclusione che segue inevitabilmente: cioè che l’arte d’Aristotele sia manca et imperfetta; et il poema di Virgilio non solo molto imperfetto, ma molto più imperfetto dell’Ancroia. [44] A dedurre questa conseguenza dalla prima conclusione vi bisogna poca fatica; pur io per ora non ho tempo di scriver più oltre. Credamisi; o chi non mi vuol credere questo, creda almanco ch’io sia cieco a fatto.
[45] Bisogna dunque fermarsi sovra quel primo passo et in quel farsi forte: che l’attione possa esser una di molti in uno; talmente però che oltre il principale gli altri concorrano ancora come partecipi della vittoria. [46] Questo solo si può difendere e tenere, se dopo il discorso di molti anni conosco cosa alcuna. Gli altri, che paiono forti, al primo impeto saranno presi. E sappiate che lo [Speroni] si ride di tutte l’altre difese; e di questa sola, se ben nol mostra, ha paura, e va in còlera con chi gliene parla. Chi cede questo punto, è spedito e spacciato a fatto il mio poema; ma in compagnia così onorata, che non gli dee rincrescere.
[47] Questa controversia, ch’è fra [lo Speroni] e me, fu causa ch’egli giudicasse, per quanto ho poi compreso, che non si potesse far poema esatto sovra l’istoria di Gierusalemme, onde tolgo l’occasion del poema; e ch’io non mi sia mai risoluto di volere in ciò il suo giudizio, sapendo che s’io avessi voluto seguire il suo consiglio mi conveniva fare un altro poema, nel quale non avessi mirato punto alla sodisfattione del mondo presente, né fatto stima dell’auttorità di Virgilio. [48] Ora, ancora che io intenda che tutte le ragioni del [lo Speroni], et in particolare quelle che saranno dirette contra il mio poema, si possono rigittare, ho però caro d’essere io quello che con gli scritti miei prevenga l’offese e faccia alcuna buona impressione nell’opinione de gli uomini; perché so molto bene quanto possa la prima impressione. [49] I miei Discorsi, precursori di tutto l’essercito dell’eloquenza, faranno la scoperta. Fra tanto non ho caro che si movino questi umori; ché per aventura (e perdonimi il mio Signore) né egli s’avede intieramente, né il signor Barga, quanto importi questo motivo. E vi bacio le mani.
[50] Vuo’ pure aggiunger questo: che se bene Omero et io convenimo in questo, che ciascuno forma un cavaliero fatale e necessario, differimo però in un’altra cosa di molta importanza: differimo nel fine a ch’è dirizzato il cavaliero; perché io ho per fine l’espugnazione di Gierusalemme, et egli non quella di Troia: la qual diversità è di tanta importanza ch’in molte altre cose è a me lecito e necessario essere in parte diverso. Considerisi questo punto e, s’io non sarò inteso, mi dicchiarerò poi.