XXI [V 20, G 42]
A Scipione Gonzaga
[1] Non voglio dissimulare la mia ambizione. Quel che mi scrive Vostra Signoria del molto piacere con che da molti è letto il mio poema ha recato a me infinito diletto: pur io desiderarei d’intendere più particolarmente di qual ordine d’uomini siano costoro a cui tanto piace; perché, a confessarle il vero, io ho sempre sperato d’avere a sodisfare a i versati nelli studi poetici, et il mio dubbio era solo intorno a gli altri.
[2] L’argomento che Vostra Signoria dimanda non potrei ora mandarlo senza molto mio discommodo: mi basterà solo, dunque, che si consideri se quello accompagnare l’attione d’Armida con l’attione principale, quasi sino al fine, potrà dare altrui noia e far parere ch’io abbia presa Armida per soggetto principale e ch’io riguardi in lei, non solo in quanto distorna i cristiani e ritiene Rinaldo, ma anco prima e per sé. [3] Se questo non offende, del rimanente parmi quasi essere o sicuro o risoluto, come l’ho scritto per l’altre mie: ma se questo noiasse, si potrebbe rimovere quella riconciliazione fra lei e Rinaldo, ch’è nell’ultimo canto, e fornire nella sua fuga; peroché in tutti gli altri luoghi dove di lei si parla, dopo il sestodecimo, non se ne parla se non brevissimamente e sempre per accidente.
[4] Della ritrovata d’Erminia non ho il medesmo dubbio che d’Armida, peroché e la sua ritrovata nasce dalle cose precedenti et opera alcuno effetto nelle subsequenti. [5] Credo ancora che, quando volessi accompagnare Armida sino all’ultimo, non mi mancarebbono alcune ragioni et alcun essempio d’Omero stesso; peroché quella persona o quella cosa che s’introduce per necessità non è necessario che subito, cessata la necessità, s’abbandoni; anzi si può seguire a parlare di lei per semplice verisimilitudine e per sodisfattione de’ lettori. [6] E lasciando stare molti essempi ch’io potrei racòrre dall’Iliade e dall’Eneide, ne darò uno dell’Odissea, il quale a mio giudicio è chiarissimo.
[7] S’introduce nell’Odissea la nave de i Feaci, non per altro, se non perché riconduca Ulisse ad Itaca: poiché dunque Ulisse è giunto ad Itaca, poteva Omero solo attendere a parlare d’Ulisse, e non era necessario ch’egli facesse più motto né de’ Feaci né di loro nave. [8] Nondimeno egli, forse per dare questa sodisfattione a i lettori o per qualsivoglia altra cagione, s’attiene alla semplice verisimilitudine e seguita narrando il ritorno de’ Feaci a casa; descrive lo sdegno di Nettuno contra loro, e ch’egli converse lor la nave in uno scoglio che sovrasta a Corfù e le toglie la vista. [9] Si potrebbe dire il medesmo ancora, per non tacer questo, de’ giuochi che si fanno nella morte di Patroclo, i quali non sono punto necessari, e poteasi fermare Omero subito dopo la vendetta fatta di lui; nondimeno seguita oltra per una conseguenza di verisimilitudine. Tanto mi basta aver detto; ma pure, se parerà che quella parte si rimova, io la rimoverò volentieri.
[10] In quanto a quello che appartiene alla narrazione di Carlo, non ho più dubbio in parte alcuna.
[11] Vostra Signoria ha ragione a non lodare nella spiegatura quella stanza che gli mandai ultimamente; ma io non posso più: la vena è così esausta e secca, ch’avrebbe bisogno dell’ozio d’un anno e d’una lieta peregrinazione per riempirsi: vedrò di mutarla in alcun modo.
[12] Ho fornito il ragionamento d’Eustazio; né me ne son compiacciuto, se non d’un non so che nel fine.
[13] Altro non mi occorre di dire a Vostra Signoria, se non ch’io son quasi sano e ch’aspetto con grandissimo desiderio d’udire il medesmo del signor Casale: e certo non poteva udire cosa che più mi rincrescesse. E con questo a Vostra Signoria illustrissima bacio le mani.
[14] Facciami favore, la prego, d’avisarmi della giunta del decimosesto e decimosettimo canto.